Noi occidentali siamo consumistici: consumiamo non solo le cose ma anche le emozioni.

Abbiamo bisogno di emozioni forti, intense, perché siamo corazzati, mascherati, e non riusciamo a percepire le emozioni e la bellezza delle emozioni meno forti ma permanenti, durature. Noi abbiamo bisogno sempre di conquistare, di possedere, di mangiare, di prendere.

  • Di fronte ad una montagna, un occidentale ci deve      salire sopra, la deve scalare, la deve vincere.
  • Un orientale, invece, si ferma, la guarda, la      assapora e prega davanti a lei.
  • Di fronte ad un tramonto, l'occidentale lo deve      catturare e lo fotografa.
  • Un orientale, invece, si siede e lo guarda,      lascia che queste immagini gli entrino dentro.
  • Di fronte ad una foresta, un occidentale inizia a      chiedersi cosa potrebbe farne, quanto gli potrebbe sfruttare, quanto      denaro potrebbe ricavarne, quali pericoli nell'iniziare un'impresa      economica in tal senso.
  • Un orientale si ferma e la guarda; al massimo fa      un "giretto dentro" per viversela.
  • Per un occidentale la felicità è raggiungere,      possedere, conquistare, avere: "Quando otterrò quell'obiettivo allora      sarò felice".
  • Un occidentale fa', corre, raggiunge; un      orientale sta, gusta, percepisce, vive.
  • Per un occidentale la vita è una retta: andare      sempre avanti, raggiungere, procedere.
  • Per un per un orientale è un cerchio: fare sempre      le stesse cose.

                       

L'economia liberista si fonda su questo principio: "Raggiungere sempre mete più alte", nuovi mercati, nuove fusioni, prestazioni migliori, efficienza, gestione migliore delle risorse, pianificare, produrre, investire, ecc: "Sempre di più". Se tu hai come tuo dipendente uno con mentalità occidentale, stai al sicuro perché sarà efficiente e produrrà. Ma se tu hai un orientale, lui si gode il lavoro e se poi produce tanto meglio.

 

Se un occidentale ha mille euro pensa a come investirli e lavora di più. Se un orientale ha mille euro, smette di andare a lavorare e li spende per bere, mangiare e divertirsi.

C'è una storia che fa capire la diversità dei due modi di pensare. Un ricco industriale rimase sconvolto quando vide un pescatore tranquillamente appoggiato alla barca, intento a fumarsi la pipa. "Perché non sei uscito a pescare?", gli chiese l'industriale. "Perché per oggi ho pescato a sufficienza", rispose il pescatore. "E perché non peschi più del necessario?", insistette l'industriale. "E che cosa farei con i pesci in più?", chiese a sua volta il pescatore. "Guadagneresti più soldi - fu la risposta - in questo modo potresti dotare una barca di un altro motore, spingerti più al largo e pescare più pesci. Così facendo, guadagneresti quel che ti basterebbe per comprarti una rete di nylon, con cui avresti ancor più pesci e più soldi. In me che non si dica potresti permetterti due barche… anzi una vera e propria flotta. Diventeresti ricco come me". "E a quel punto che cosa farei?", tornò a chiedere il pescatore. "Potresti startene seduto e goderti la vita", fu la risposta dell'industriale. "E che cosa credi che stia facendo in questo preciso momento", rispose soddisfatto il pescatore.

Noi occidentali cerchiamo sempre una felicità maggiore, più grande (e in questo senso aver posto il Paradiso come meta della nostra felicità non ci ha aiutato perché è come dire che niente ci può far felici di qua rispetto a quella realtà), ma forse, in realtà, è che non siamo capaci di godere di quello che abbiamo e così continuiamo a correre e a cercare chissà cosa.

Facendo così:

  1. Facciamo dipendere la nostra felicità da eventi esterni.
  2. Quando abbiamo raggiunto il traguardo ne dobbiamo trovare un altro, altrimenti che facciamo?
  3. Cerchiamo sempre la felicità ma non la si godiamo mai (perché dobbiamo sempre raggiungere qualcos'altro).
  4. Corriamo sempre.
  5. Ci illudiamo che il "nuovo traguardo" sarà quello buono, con una grande disillusione.
  6. Continuiamo a vivere emozioni passeggere, senza profondità di sentimento.

Per gli orientali, la felicità, invece, è il cammino, la strada. Beati, felicità è una parola ebraica רשא (ascer) che vuol dire "avanzare, guidato, condotto". La felicità non è una meta ma la strada che mi porta alla meta. Tutti noi facciamo quest'esperienza: quando stiamo con degli amici e parliamo, condividiamo il nostro animo e come stiamo, ci raccontiamo, ridiamo e scherziamo, mangiamo e passiamo insieme il tempo. Cosa facciamo? Cosa produciamo? Niente!, eppure come siamo felici! Tra marito e moglie: forse ci sono "mete" da raggiungere fra di noi, forse dobbiamo parlarci di più, forse dobbiamo entrare più in profondità nelle questioni che volutamente tralasciamo. Ma perché non ci fermiamo e ci guardiamo negli occhi? Perché non gustiamo il nostro stare assieme da tanto tempo e la forza del nostro rapporto? Perché non ci gustiamo gli abbracci, le coccole, l'amore? Perché non "perdiamo tempo" a stare insieme? Forse non produce ricchezza ma produce felicità.

Con i figli: lavoriamo un sacco per potergli permettere tutti i confort possibili ma non abbiamo tempo per stare con loro, per divertirsi e per giocare con loro. Di certo i nostri figli hanno molto di più di quanto avevamo noi, ma sono davvero più felici?

Giornate al mare, giocare con la palla, fare i castelli con la sabbia, ridere a crepapelle, baciarsi, accarezzarsi, strusciarsi come fanno i gatti, fare la battaglia dei cuscini, camminare in montagna, tirare i sassi nel fiume, disegnare con i colori a dito, dipingere insieme la stanza, fare le ombre cinesi, far volare un aquilone nel cielo, andare in bicicletta, andare a piedi nudi sui campi, fare un dolce insieme, impastare la pasta di sale e creare, raccontarsi e dirsi che ci si vuole bene, ecc: tutto questo non riempie gli armadi ma riempie il cuore; non produce soldi ma felicità.

Nelle nostre parrocchie: ci sono molti problemi e molte esigenze (mete). C'è sempre qualcuno che si lamenta che si potrebbe fare di più e c'è sempre qualcos'altro da fare. Ma perché non ci fermiamo e non ci raccontiamo il nostro vivere? Perché non "assaggiamo" quanto di bello, di buono, di vero, c'è? Sì c'è dell'altro da fare, ma perché non gustiamo ciò che già c'è? Perché non ci fermiamo e non viviamo la bellezza e la forza del nostro stare assieme e di quello che già facciamo? Forse non produce qualcosa ma incontri di vita, sì!

Perché non ci fermiamo in riva al mare a guardare le onde che arrivano a riva, i gabbiani che volano liberi nel cielo senza confini, a sentire il suono dell'acqua, a riempirci del sole che tramonta? Facendo così non "si fanno" i mestieri, né le faccende di casa, né si sistema l'orto, il bagno o la camera, ma "si fa" cuore, "si fa" vita, "si fa" felicità.

La felicità, ascer, non è una meta, è la strada. La felicità è oggi o non è mai; la felicità è saper godere di questo presente o non sarà in nessun futuro; la felicità non è solo "stare bene" ma vivere tutto quello che c'è da vivere.

Nessun paradiso per chi non sa vivere sulla terra.

Nessuna felicità senza fine per chi non sa vivere la felicità che finisce.

Gli uomini credono ancora che la felicità sia una cosa: così la comprano nelle strade, nei negozi, nella carriere e nel lavoro.

Poveri illusi! La felicità riguarda ciò che sei tu